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IL CASO SPOTLIGHT: IL GRANDE GIORNALISMO IN UNA DELLE MIGLIORI PROVE CINEMATOGRAFICHE

IL CASO SPOTLIGHT: IL GRANDE GIORNALISMO IN UNA DELLE MIGLIORI PROVE CINEMATOGRAFICHE

di Benedetta Franzin

È l’estate de 2001 quando alla dirigenza del Boston Globe arriva il taciturno e riflessivo Marty Baron (un eccezionale, seppur ingiustamente ignorato dall’Academy, Liev Schreiber) che decide di riportare al vertice il giornale promuovendo inchieste delicate ed allontanando progressivamente il team Spotlight dalla routine quotidiana delle indagini. Ad attirare l’attenzione del nuovo direttore è infatti il caso locale, poi insabbiato dallo strapotere della Chiesa Cattolica, di un sacerdote di Boston che ha abusato regolarmente per 30 anni di minori.

Fatta eccezione per un paio di film sicuramente meno pretenziosi, in Spotlight Tom McCarthy si serve di un cast spettacolare per ricostruire nel dettaglio una delle inchieste giornalistiche che hanno segnato la storia americana ed internazionale. La sua abilità risiede infatti nell’attenta e doviziosa analisi di un sistema in cui la corruzione si espande a macchia d’olio partendo proprio da quei vertici che si nascondono dietro la storia secolare per ‘giustificare’, ‘intimorire’ – o meglio, insabbiare – tragici casi di abusi su minore, molestie che avvengono soprattutto nei confronti di bambini e bambine provenienti da famiglie povere e disagiate che riconoscono nella fede un legame importante, forse l’unico, con Dio.

Il brillante Walter Robinson (Michael Keaton, che dopo Birdman sembra aver trovato la propria rinascita d’attore) dirige il team, divide i compiti e fa da collante tra i colleghi, arrivando alla conclusione che forse il caso si sarebbe potuto portare alla luce molto tempo prima. Indispensabile di certo la presenza della bella e brava Rachel McAdams (Sacha) – finalmente spoglia delle insopportabili vesti harmony dei suoi personaggi cinematografici, uno per tutti il carino ma non splendido, troppo melenso Le pagine della nostra vita – e un sempre straordinario Mark Ruffalo (Michael, in crisi con la moglie ma grande lavoratore e cronista determinato, attentissimo ai dettagli).

Il caso Spotlight, candidato a ben 6 premi Oscar, ha portato a casa la statuetta come Miglior Film, dimostrando in maniera quasi del tutto evidente che quello di McCarthy non è un attacco diretto al mondo cattolico quanto, piuttosto, un modo più profondo e oggettivo di chiedersi il perché di determinate azioni da parte degli uomini e, soprattutto, da parte di quelli che indossano il colletto bianco. Il pregio di questo film sta nell’equilibrio stilistico e nell’impostazione della regia che sembra fare implicito riferimento a quella degli anni Sessanta e Settanta, in cui il giornalismo d’inchiesta è stato più volte affrontato con attenzione ed intelligenza da un regista abile a gestire gli attori in scena e a creare una fitta rete d’intesa tra film e spettatore, subito spinto a farsi catturare dalla storia, in un graduale percorso di coinvolgimento ed immedesimazione.

Come emerge nel corso della pellicola, il problema della pedofilia nella Chiesa rappresenta una situazione di rilevanza psichiatrica e una piaga che coinvolge molte più persone di quante si possa immaginare: non accogliere positivamente questo film, come boicottarne la visione, significherebbe tentare per l’ennesima volta di chiudere gli occhi davanti a dei fatti così gravi ed allarmanti che chiedono solo di trovare i giusti mezzi per poter venire definitivamente a galla chiedendo massima consapevolezza a tutti, soprattutto ai più devoti.

 

 

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