UNA FASHION BLOGGER 17ENNE METTE IN GINOCCHIO I COLOSSI DELLA MODA Reviewed by on . Rating: 0

UNA FASHION BLOGGER 17ENNE METTE IN GINOCCHIO I COLOSSI DELLA MODA

UNA FASHION BLOGGER 17ENNE METTE IN GINOCCHIO I COLOSSI DELLA MODA

“Il ragazzo non era molto alto, sottile, bruno. Pensai che era bello. Poi pensai che no, non era bello, ma aveva quegli occhi, gli occhi del mio Iqbal che ancora adesso ricordo. Erano dolci e profondi e non avevano paura…».

“La storia di Iqbal Mashir”, e’ un libro di Francesco d’Adamo che parla della  vita vera di un bambino pakistano di 12 anni, che, venduto da suo padre a causa di debiti, diventa schiavo in una fabbrica di tappeti, alla periferia di Lahore, in Pakistan. Una storia purtroppo che si riscontra anche in altre occasioni e si ripete.
Questa volta, ad accogersi di uno sfruttamento inumano di manodopera, 3 blogger giovanissime contro una catena
che, come il colosso svedese H&M offre la moda low cost e secondo il loro studio sul campo, lo fanno sfruttando la manodopera.   “Dichiarare di produrre 100 per 100 made in Italy rispetto ai dettami di una norma nazionale, la 166 del 2009 art 16, certificare l’origine tramite un organismo terzo come TF di Unionfiliere che garantisca anche il rispetto delle norme ambientali e sociali”, esordisce cosi’, Gianluca Fascina, Presidente della Federazione Moda di Confartigianato Imprese Veneto nel commentare quanto gira in questi giorni sui social rispetto a come e dove
vengono prodotti i vestiti della notissima catena norvegese H&M.

Dice anche che nel mondo della moda si tratta di una conferma ma i cittadini devono sapere cosa si cela dietro ad un capo finito della grossa distribuzione e perchè i Paesi nordici sono così contrari all’obbligatorietà del  made in europeo. “Noi come Confartigianato Moda proseguiremo nella nostra battaglia per un sistema ed una filiera più equa. Ricordo il nostro progetto di teatro civile “Tutto quello che sto per dirvi è falso” giunto oramai alla soglia delle 50 repliche nel Paese, ma anche dando conto e pubblicizzando informazioni ed inchieste che appaiono sui social network molto più che su carta stampata e organi di informazione tradizionale. Mi fa piacere infine”, conclude Fascina, “che questa volta si sia dato conto del comportamento di un colosso straniero. Un anno e mezzo fa, quando ci fu la tragedia in Bangladesh in cui perirono quasi 2mila persone, l’ONG “abiti puliti” avviò
una fortissima campagna contro Benetton.
Il colosso veneto non è da difendere ma è anche vero che per una corretta informazione vanno resi pubblici i comportamenti di tutte le grandi catene che adottano sistemi discutibili di approvvigionamento, altrimenti si rischia solo di penalizzare qualcuno a discapito di altri, magari peggiori”.

Cio’ a cui si riferisce Fascina e’ “Sweat Shop”, un docu-reality del quotidiano norvegese Aftenposten nato per fare da testimone a come e dove vengono prodotti gli abiti venduti da una delle più grandi catene di negozi di abbigliamento “low cost”, il colosso svedese H&M.
Tre giovani fashion blogger norvegesi sono state inviate in Cambogia, uno dei paesi dove l’azienda produce la maggior parte dei capi, e per un mese hanno vissuto a stretto contatto con i lavoratori dei laboratori tessili dove vengono realizzati gli abiti, vivendo nelle loro stesse condizioni, tra alloggi fatiscenti e turni di lavoro massacranti. Aftenposten voleva raccontare ai giovani norvegesi da dove viene la maggior parte dei vestiti che indossano ogni giorno, attraverso la delocalizzazione nei paesi del sud-est asiatico, dove in realta’ milioni di persone lavorano in condizioni disumane.
Il lavoro delle tre blogger norvegesi di Sweat Shop ha avuto una forzatura perche’ e’ stato loro  imposto, di non raccontare parte di ciò che avevano vissuto durante la loro esperienza nei laboratori tessili della Cambogia. Una specie di bavaglio che la giovanissima Anniken Jørgensen, una delle tre blogger che ha partecipato al reality, si e’ voluta strappare dalla bocca iniziando a raccontare la verità, intraprendendo da sola una campagna per far sapere al mondo le reali condizioni dei lavoratori tessili cambogiani.

Anniken ha solo 17 anni ma e’ forte e forte e’ soprattutto la sua voglia di raccontare la realta’ e nel suo blog sono venute fuori aziende coinvolte nello sfruttamento degli operai, in particolare H&M, e la realtà e’ venuta fuori senza la censura preparata dallo stesso Aftenposten che aveva organizzato il viaggio in Cambogia delle sue inviate senza pensare al grosso polverone che si sarebbe sollevato.
Il quotidiano sarebbe riuscito a mantenere il silenzio, fino a un paio di mesi fa, quando Anniken ha pubblicato in un blog l’esperienza che lei stessa dichiara “radice di cambiamento di vita”: “È incredibilmente frustrante che una grande catena di abbigliamento abbia così tanto potere da spaventare e condizionare il più importante quotidiano della Norvegia. Non c’è da meravigliarsi: il mondo è così. Ho sempre pensato che nel mio paese ci fosse libertà di espressione. Mi sbagliavo”, dice Anniken.

E così, grazie al tam tam del web, la denuncia della ragazza ha cominciato a prendere il largo, diventando virale insieme alla sua iniziativa di boicottare H&M e i suoi abiti. Fino al punto che la stessa azienda ha chiesto di poterla incontrare nella sede principale di Stoccolma annunciando, nello stesso tempo, di aver preso provvedimenti nei confronti dei suoi laboratori tessili affinché si impegnassero a migliorare le condizioni di vita dei propri operai.

Perche’ la storia di Iqbal e di tutti quei bimbi dalle dita minute, capaci di afferrare i fili colorati e stringere i nodi dei tappeti, muovendo senza sosta i pedali dei vecchi telai di legno che lavorano dall’alba al tramonto, mentre le dita si riempiono di vesciche ritornino bimbi che giocano e basta, perche’ Iqbal l’ha incontrato anche la giovane blogger, e qui nella figura di una ragazza di 18 anni che da ben nove anni lavora in Cambogia nelle filiere di queste grandi colossi.

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